PRINCIPI E FILOSOFIA DI UNA NUOVA CULTURA GASTRONOMICA: INTERVISTA A MATTEO ALOE, CREATORE DI BERBERÈ

Matteo Aloe, classe 1986, è cresciuto con una forte passione per la cucina, che si è trasformata in lavoro ricco di soddisfazioni e riconoscimenti. Grazie alla ricerca meticolosa e alla creatività nella preparazione della pizza, Aloe ha saputo conquistare il favore e il palato del pubblico e la stima dei critici.

L’ obiettivo di Aloe è portare a tavola ingredienti di altissima qualità, elaborati da (giovani) colleghi artigiani, e accessibili ai più: una nuova cultura gastronomica fondata su stagionalità, popolarità e artigianalità.
Lo abbiamo intervistato per andare a scovare quali sono principi saldi dell’ascesa di un Professionista, quali sono i suoi punti di vista e i segreti e per dare i giusti consigli ai nostri lettori in un’ottica di crescita e perfezionamento professionale.

matteo_aloe2• Matteo, da una laurea in economia e marketing alla creazione del gusto. Come è nata la sua passione per la cucina e come nasce lo Chef Aloe?
La mia aspirazione è mantenere un’azienda sana, sotto tutti i punti di vista, che fa cibo per rendere felici gli attori che ruotano attorno, dai fruitori finali ai produttori di materie prime, dagli artigiani in cucina a chi serve in sala. Purtroppo oggi in Italia si vive in un clima di tensione da tutti i lati (lavoratori, stato, consumatori, etc.) e ed è molto difficile portare avanti progetti ambiziosi come il nostro in maniera coerente. Ma, essendo del sud, ho la testa dura e continuerò sulla strada iniziata 5 anni fa, da 10 dipendenti oggi sono diventati 37 e presto con Expo raddoppieranno. È una soddisfazione, conoscerli uno a uno e vedere come lavorano.
La passione per la cucina è innata, l’indirizzo economico all’università l’ho scelto perché pensavo un giorno sarebbe stato utile per gestire i food cost delle ricette, il marketing del mio ristorantino. Oggi è utile per operazioni un po’ più grandi e non mi dispiacerebbe, vivendo a Bologna, un giorno frequentare qualche lezione e continuare ad aggiornarmi all’università. Così come appena riesco faccio esperienze in ristoranti diversi per continuare a vivere il mondo della cucina in diverse sfaccettature.

• Non ha ancora 30 anni e già può vantare esperienze professionali e imprenditoriali di grande prestigio. Esistono regole ferree che un professionista come lei non deve mai dimenticare?
Ho meno di 30 anni, vero, 29 fra poco, ma tutti me ne danno almeno dieci in più.
Prima regola impegnarsi a fondo. Lavorare tutti i giorni e per moltissime ore, cambiando veste spesso e essere multitasking. Per partire dal bassissimo, dallo zero, come abbiamo fatto noi, bisogna avere pazienza, lavorare, e pensare con 10 anni di prospettiva. La mia generazione non è abituata, quella più giovane ancora meno, si pensa sempre che sia tutto a portata di mouse, che tutto arrivi nel tempo di un click. Ma la realtà è diversa. Seconda regola imprescindibile è la coerenza: per durare nel tempo e perseguire gli obiettivi posti, bisogna essere coerenti, stare attenti alle sirene, alle deviazioni che momenti difficili ti possono fare intraprendere. E di momenti difficili ce ne sono

Quali sono gli ostacoli che si incontrano per affermarsi come imprenditori nel settore del food?
Uno: la burocrazia. Per avere un ristorante a norma devi avere consulenti, ingegneri e impiantisti specializzati, responsabili sulla sicurezza, enti di formazione per il personale giovane, etc. Basti pensare, per esempio, che c’è un ente che controlla i cappelli (usl) e uno le scarpe (ispettorato del lavoro) di chi lavora in cucina.
Due: il lavoro. Trovare persone che si appassionano a questi mestieri e lo facciano con interesse e continuità è sempre molto difficile. Soprattutto per quanto riguarda la sala. Eppure è un lavoro molto bello, dinamico, mai noioso o ripetitivo. Nel mio caso poi, i ragazzi hanno a che fare con tecniche e prodotti belli, non solo da toccare ma anche da raccontare. Anche i contratti collettivi in questo settore a mio avviso sono da riguardare: un’impresa ristorativa di Riccione ad Agosto ha esigenze diverse di un ristorante di 25 coperti di un piccolo paese. In più il lavoro nero in questo settore è quasi la prassi e questo crea concorrenza sleale in due modi: una sul mercato del lavoro in quanto il lavoratore vede uno stipendio più alto a fine mese (non considera più i contributi etc.), due nel mercato finale, chi usa il lavoro nero riesce a tenere i prezzi più bassi.
Tre: la comunicazione. Spesso in questo settore si comunica ciò che non si fa. Quindi i consumatori finali spesso non riescono a distinguere il vero buono dal falso buono. Basti pensare che ormai anche grandi multinazionali come McDonalds o Nestlé comunicano salubrità, sostenibilità, etc. O a tutti i ristoranti con il nome bio nel logo o payoff che poi di bio hanno davvero poco o nulla.
Quattro: la pressione fiscale. I margini di un ristorante che va benissimo non superano il 13-15%. Basta davvero poco per bruciarli. Soprattutto nelle fasi di avviamento. Il costo del lavoro è quello più difficile da tenere nei canoni della teoria.

Ha effettuato lo stage al Noma di Copenhagen, il ristorante giudicato per ben 4 volte il migliore al mondo. Come è nata l’opportunità di entrare alla corte del grande Chef René Redzepi?
Ero uno stagista. Come tantissimi altri. L’opportunità è nata scrivendogli e grazie alla possibilità che la mia azienda mi ha dato per stare via 3 mesi, grazie anche alle persone che lavoravano nei ristoranti che non avevano bisogno di me. Quindi l’opportunità è nata dalla mia volontà a fare quella esperienza ma è stata resa possibile dai miei soci e collaboratori.
Quello del Noma è un mondo a sé, molto bello, merita i successi che gli vengono riconosciuti.

• Riesce a visualizzare la meta verso la quale indirizza tutte le sue scelte professionali?
La nostra strada è la stessa dal principio. A volte hai delle colline e non vedi la meta, altre volte sei in pianura in giornate serene e vedi molto lontano. Come ho detto prima l’importante è non deviare.

• I suoi locali e i suoi piatti si distinguono per qualità, stagionalità e originalità. Come definisce il suo modo di far cucina?
Il nostro obiettivo è quello di fare una cucina trasparente che fa quello che dice, rendendo comunque il prodotto un successo commerciale e popolare. Per cui la cucina è sicuramente artigianale, segue le stagioni, utilizza solo ingredienti di origini certe e conosciute. Ma deve essere anche accessibile, divertente e conviviale. Chi viene a cena o pranzo da noi, deve stare bene con i suoi commensali, deve percepire che sta mangiando prodotti di qualità, devono piacergli ma non gli possiamo fare ogni volta una lezione accademica, altrimenti avremmo solo i nerd e non sarebbero a sufficienza. Per avere un pareggio, in media uno dei nostri ristoranti deve fare 160 persone al giorno. La sfida è dare a tutti una cucina fatta bene, senza fronzoli, allegra ma seria nella tecnica.

L’originalità è una delle parole d’ordine delle sue attività: originalità nei prodotti utilizzati in cucina, ma anche nei format proposti. Ci parla del suo nuovo take away?
Abbiamo pensato a Shakeat, una formula adatta a venire incontro ad alcune esigenze. Le persone sempre meno hanno tempo per sedersi a tavola, pensi che a Londra una statistica dice che il tempo speso per sedersi in un tavolo per la pausa pranzo è 17 minuti. Per fortuna in Italia ancora dedichiamo più tempo, ma non ne abbiamo molto. Il take away spesso è però un prodotto triste e poco buono. Una formula può essere avere un barattolo dove il sale e l’olio viene posto sul fondo, gli ingredienti sconditi disposti a strati e shakerati solo al momento del consumo. In questo modo il sale non “cuoce” le erbe, i colori e i sapori rimangono vivi fino all’ultimo.

Ci parla dell’apertura milanese in vista di Expo 2015?
A expo andremo insieme ad Alce Nero. Avere Expo in Italia con tema il cibo e lasciarlo solo alle multinazionali estere vuol dire non avere senso civico. L’obiettivo principale è portare il nostro messaggio, ovvero che una cucina artigianale, buona, nutriente, stagionale, coerente, biologica e sostenibile è possibile.

Quale messaggio vorrebbe lanciare a nostri lettori del mondo della ristorazione?
Abbiamo tutti gli stessi problemi, se lavorassimo assieme per risolverli forse ce la potremmo fare. Basta guardare cosa fanno a Copenhagen con nulla rispetto a quello che abbiamo noi. Invece da noi non si fa gruppo, perché si prova quasi gioia a vedere gli altri in difficoltà, l’importante è che io me la cavi. Bisogna anche cercare di dare un cambio generazionale alle scuole: non si possono ancora insegnare le cose di 30 anni fa.

Ringraziamo lo Chef Matteo Aloe per aver condiviso con noi la sua filosofia, i suoi punti di vista e le sue aspirazioni.
Sito web Berberè
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